Di: Maya Cordì
Rovigo, 21 luglio 2024.
È una calda domenica di luglio e da poco è suonato mezzogiorno. Mi trovo seduta all’ombra del palazzo del municipio di Rovigo, proprio di fronte piazza Vittorio Emanuele II. Con me, oltre a una bottiglia d’acqua gelida, ho un piccolo taccuino e una penna agguantati frettolosamente prima di uscire dalla camera d’hotel. Li volevo con me a tutti i costi anche se magari, per qualche strana ragione, sarebbero rimasti in borsa tutto il giorno. Volevo avere la certezza di sapere che c’erano nel caso mi fosse venuto l’impulso di scrivere. Così è stato.
Mentre mi godo la frescura di quell’angolino che sa di storia, mi guardo attorno e ascolto. Immediatamente, vengo colpita dal silenzio che sembra quasi rimbalzare da una parete all’altra della grande piazza. Colta da uno stupore inquieto, mi domando come sia possibile che quella sia la stessa piazza che le due sere precedenti ha accolto centinaia di persone e che stasera ne accoglierà altrettante assieme a decine di artisti e addetti ai lavori. La risposta arriva subito: quello che in tre giorni il Festival di Voci per la Libertà – Una canzone per Amnesty è riuscito a creare, va al di là del muro del suono.
Soffermandomi sui frammenti di ricordo che ho fatto miei sin dal primo giorno, di colpo ne sento le voci, le parole, le melodie e ne riconosco i volti, i sorrisi. Tantissime sono state le persone che ho conosciuto in questa tre giorni di musica e arte, e tutte si sono aggrappate alla mia memoria per un motivo.
C’è ad esempio Maurizio Capone, uno degli 8 artisti in gara per il Premio Amnesty Emergenti. Di lui mi sono rimaste la raffinatezza del suo urban cantautorale in Capille Luonghe e la sua voce calda accompagnata solo da un bicordo suonato sulla sua Scatulera – una piccola kalimba creata con una scatola di gelato – sintesi della sua spontaneità e dell’atipicità del suo progetto.
Assieme a lui, mi tornano in mente le grida di gioia e gli abbracci scoppiati tra il rapper tarantino Motus e il suo gruppo nell’esatto momento in cui il nome del suo brano Per fortuna ci sei tu è risuonato tra i 5 finalisti.
Non sono da meno, poi, i piccoli attimi di quotidianità scorti due giorni prima nei gesti di due dei 7 “big” invitati alla rassegna. Da un lato la cantante pugliese Erica Mou, che dal palco di Piazza Annonaria accompagnava in acustico un reading musicale volgendo di tanto in tanto lo sguardo alla figlia cullata tra le sue braccia fino a qualche istante prima; dall’altro un divertente e intimo sketch con il simpatico cane di Patrizia Laquidara, eclettica cantautrice catanese che qualche ora dopo avrebbe conquistato il pubblico di piazza Vittorio Emanuele II.
Sorrido ricordando inoltre il momento in cui una ragazza avvicinò il cantante bresciano Matteo Faustini per regalargli un girasole, come a voler dar vita alla storia de Il Girasole innamorato della Luna, titolo della sua pop ballad e metafora di un amore libero da ogni preconcetto.
Destreggiandomi infine tra la miriade di stimoli ricevuti in poco più di 48 ore, mi accorgo che il mio sorriso ha assunto via via una sfumatura di complicità. Cerco quindi di mettere a fuoco il ricordo e percepisco in me una forte carica di energia. È lei, Giulia Mei, che con il cantautorato elettronico di Bandiera riesce ancora a trasmettermi il grido di migliaia di donne che desiderano un mondo libero in cui sentirsi al sicuro.
Inaspettatamente, alla cantante siciliana segue poi il nome di un’altra cantautrice, Isotta, che da Siena porta il suo Coming Out come invito a sradicare ogni freno interiore e inno di libertà per tutti coloro che sentono il peso di una maschera sociale.
Distolgo per un attimo il pensiero e lascio cadere il mio occhio sull’orologio da polso. Sono quasi le una di pomeriggio ed è meglio che torni in camera per prepararmi: “Stasera sarà una gran serata, l’ultima di questo Festival” penso “… e chissà che con Diodato come ospite il pubblico non riservi alla giuria neanche i posti a sedere… Devo sbrigarmi!”.
Esito un po’, ma non ci vuole molto per lasciar fluire qualche ultimo ricordo prima di rituffarmi nel presente. A bussare stavolta sono dei versi pop-punk che viaggiano da un orecchio all’altro: “2030, guerra mondiale, piovono bombe/ stormi di droni oscurano il sole come aquile in cielo“. Sono i Turbospettro, un giovane gruppo milanese, che nella prima serata ha gridato a un futuro distopico con la grinta di una boyband dei primi anni 2000.
Senza volerlo, torno con l’occhio alle lancette dell’orologio fino a scorgere sulle pagine intrise d’inchiostro due nomi: “Emanuele Conte” e “Babele“. Noto che il mio fanatismo per gli accostamenti, durante i miei pomeriggi di studio da me stessa imposti per questo Festival, mi ha portato ad avvicinare questi due ultimi cantanti in gara.
Entrambi giovanissimi, entrambi con riferimenti letterari nelle loro canzoni, entrambi desiderosi di raccontare una storia che accomuna da sempre tutti gli uomini. Rispettivamente Proiettile Bambolina e Mediterraneo, narrano infatti di una storia fatta di distruzione e speranza, morte e salvezza; da un lato dentro la cornice della guerra, dall’altro dentro quella del fenomeno migratorio.
Distratta, mentre mescolo involontariamente entrambi i ritornelli in testa, realizzo che purtroppo Babele stasera non salirà su quel palco. La finale sarà infatti giocata a 5 tra Maurizio Capone, Giulia Mei, Motus, Emanuele Conte e Matteo Faustini.
Io? So già a chi andrà il mio voto.
Tempo di bere un ultimo sorso di acqua e con un sorriso compiaciuto faccio per chiudere la pagina sgualcita del mio piccolo diario. È una sensazione strana e piacevole a tal punto da spronarmi a mettermi in cammino verso l’hotel. Sono le 14:00 e il tempo inizia a stringere. Stasera ci sarà la finale e saremo proprio noi della giuria a decretare il vincitore del Premio Amnesty Emergenti. Sarà meglio che mi muova.