Di Palmachiara Longordo
Giovedì 7 marzo alle 18.30 presso il Polo Zanotto dell’Università degli studi di Verona si è tenuto un interessante dibattito legato al tema della giustizia riparativa, in cui si è cercato di superare alcune “etichette” legate ai reati per valorizzare le persone come esseri umani.
Testimoni per eccellenza dell’incontro sono Agnese Moro e Franco Bonisoli – rispettivamente la figlia di Aldo Moro insieme a uno dei brigatisti legati al rapimento dell’onorevole; fuori dai consueti ruoli di vittima e carnefice.
Ad aprire la discussione sul caso è stato Alberto Maria Tedoldi, Docente di diritto processuale e contestualmente responsabile del centro Neg2Med, che ha portato i saluti istituzionali del Magnifico Rettore.
Il focus dell’incontro, fatto di testimonianze di vita, è stato introdotto nella sua parte più teorica da Silvio Masin, responsabile dell’Istituto Don Calabria e attore dal 1998 nel campo della mediazione penale, prima in ambito minorile per poi estendersi a una visione totale della materia.
Mediazione penale e giustizia riparativa sono, come spiega Masin, due sinonimi che vogliono andare ad affiancare il tradizionale percorso di giustizia ordinaria. Se da una parte, la giustizia “tradizionale” si fonda sui cavilli di materia giuridica, dall’altra, la giustizia riparativa vuole agire sul canale unico dell’accoglienza e dell’ascolto, elementi fondati per questo tipo di gestione delle controversie.
Masin si è focalizzato sull’equilibrio fra parti, sul bilanciamento che conduce la parte offesa e l’autore del reato sullo stesso piano: l’esatto istante in cui la vittima volge lo sguardo nei confronti del carnefice e decide di muovere i suoi passi verso di lui e, nello stesso momento, l’ aguzzino si incammina sulla via che porta alla vittima, per ricostruire e recuperare il male fatto, per quanto possibile, attraverso l’accettazione della colpa. È attraverso questo cammino, l’uno verso l’altro, che perdono ed espiazione si incontrano e la bilancia della vita riesce a trovare il suo equilibrio.
Infine, è nodale il concetto di tempo, definito da Masin come un “tempo gentile”, fatto di prese di coscienza e di cura della persona, un tempo dato a curare le ferite a cui la giustizia ordinaria non presta premura.
Emerge anche il tema del coraggio, quello “di incontrarsi” per un confronto e che trova un giusto esempio nella testimonianza proposta durante l’incontro tra Agnese Moro e Franco Bonisoli.
«Io ho una responsabilità precisa in quello che è successo al papà di Agnese Moro» così esordisce
Franco Bonisoli, ex brigatista detto “rossino”, che nel 1978 partecipò attivamente al rapimento dell’onorevole Aldo Moro.
Bonisoli dopo la cruda affermazione, concentra il suo intervento sul racconto della sua storia, mostrandone tutti i volti, anche quelli che lo resero, ai tempi del caso, carnefice intenzionale e convinto. Ciò che viene mostrato al pubblico è un personaggio alla costante ricerca di un mondo ideologicamente ed erroneamente più“giusto”, indagine che, come lo stesso Bonisoli ammette, si palesava sotto forma di una logica di “aggressione e difesa”. Una storia fatta di radicali convinzioni; di un’associazione, quella delle brigate, che si mostrava coerente nelle azioni e paradossalmente corretta; una storia permeata da violenze e durezza contro lo stato e addirittura contro il carcere stesso, che nella seconda fase diventava istituzione da combattere dall’interno.
Bonisoli arriva poi allo snodo eclatante della sua storia: dopo giorni di digiuno, usato come arma di abbandono contro le violenze del carcere, il 27 dicembre del 1993 un cappellano porge la mano in aiuto a Bonisoli e ai suoi compagni e lo fa utilizzando parole nuove, cui faceva capo l’ideologia della fratellanza.
L’ex brigatista si commuove raccontando le parole del frate, la voce diventa instabile al racconto di un aiuto percepito quasi come ingiusto, se paragonato alle colpe che dovevano essere espiate.
Da quel momento, secondo i racconti di Bonisoli, la sua vita cambia, si muove sul filo della redenzione verso l’uscita da un inferno che qualcuno aveva visto e aveva deciso di rompere.
Il mediatore dell’inferno di Bonisoli fu Padre Bertagna, lo stesso che spinse verso la proposta di incontro tra il rossino e Agnese Moro.
Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, siede accanto al carnefice del padre con una tranquillità che lascia la comunità universitaria attonita. Il suo intervento parte proprio da lì, dall’incontro tra lei e “Franco” che, come tende a sottolineare, non è un qualcosa di stravagante.
La giustizia riparativa, come afferma la Moro, non è atto di moralità o bontà innata, è percorso di vita in cui si decide di affrontare l’irreparabile. Nel suo racconto la donna cita la filosofia orientale e la metafora del Kintsugi, secondo cui i vasi rotti possono essere assemblati e risanati con dell’oro per tornare allo stato d’origine. Agnese sfalda questa teoria, la frantuma proprio come si romperebbero dei cocci di ceramica: la morte del padre è il limpido esempio dell’irreparabile, ciò che non torna indietro ma allo stesso tempo è quel qualcosa che lascia dietro dell’altro, ed è proprio l’altro che si può riparare.
La Moro ci parla dell’altro che l’irreparabile lascia dietro sé e lo paragona a delle scorie radioattive, qualcosa di pericoloso che non si vede subito ma solo dopo aver prodotto danni.
Le scorie radioattive di cui Agnese parla sono di tre tipi.
La prima è l’immobilità, che lascia la persona congelata in un determinato momento e lo fa rivivere, mentre la vita prosegue senza scrupolo alcuno, lasciando attaccate alle vite delle maschere indelebili: del carnefice, della vittima. L’immobile che Agnese descrive non è un ricordo, è un incubo che si rivive circolarmente in ogni istante e non permette di vivere. La maschera che le è stata attribuita è quella dell’eterna vittima, dell’odio “giusto” che non le rende lecita una vita piena.
La seconda scoria è il silenzio, la necessità di mettere a tacere ogni dolore e racconto di esso per il timore di poterlo far rivivere ad altri. La Moro racconta il suo silenzio nei confronti dei suoi tre figli ma soprattutto racconta come, a distanza di anni, abbia capito come questo sia stato lesivo. Ogni silenzio è tradotto in modo diverso, ogni figlio ha tradotto il dolore silente della madre in un qualcosa che lo ha incatenato più del dolore stesso.
La terza scoria è l’ingombro, il peso che riempie la persona, il peso di un padre mai tornato, il peso di un sangue che non è fatto di vita ma di morte, il peso di ricordi da eliminare perché troppo contaminati dal dolore.
È contro queste scorie che secondo Agnese Moro entra in gioco la giustizia riparativa, nel suo essere fatta di niente e paradossalmente di tutto: basata sull’incontro, sulla ricerca all’interno degli inferni personali in cui finalmente qualcuno ti viene a cercare.
Ciò che più colpisce dell’incontro, nel senso pratico e totale del termine, è il legame a tratti surreale tra le due vite. Il racconto di due storie diverse, di due ruoli opposti che nella concezione a cui siamo abituati camminano parallelamente distanti ma che, in questo caso, hanno deciso di incontrarsi e intrecciarsi. Questo nodo non viene alla luce solo attraverso la descrizione o l’uso diffuso che Bonisoli fa del termine amicizia, ma è reso limpido soprattutto dai racconti, talvolta spontanei, della quotidianità dei suoi protagonisti. Agnese Moro tradisce il sentimento puro che la lega a Bonisoli mediante gli sguardi che gli volge raccontando dei momenti di vita, le serate passate a lavare le stoviglie l’uno accanto all’altra (perché sì, capita a volte che per incontri legati al tema della giustizia riparativa si ritrovino a condividere un alloggio!), parlando di un trauma che diventa, con una spontaneità disarmante, svincolato da ogni timore e pregiudizio. Entra in gioco un unico sentimento agli occhi del pubblico, quello talvolta più irraggiungibile: il perdono umano.
Moro e Bonisoli, hanno voluto mostrare l’incontro, il mettersi alla pari e il perdono sotto forma di normalità perché, come affermato a conclusione degli interventi: UNA MEMORIA CONDIVISA E APERTA PERMETTE DI COSTRUIRE QUALCOSA DI NUOVO. Dire che c’è eccezionalità è come dire che non si può fare.